Le nuove (seconde) case si insediano nella zona prossima al Capo e alla sottostante piccola baia, disarticolando il borgo di S. Alessio. Vecchio di poche case, una chiesetta e una fontana. I risultati di sondaggi archeologici assicurano nei terreni attorno la baia un'ininterrotta continuità di vita dal periodo greco coloniale (VI secolo a.C.) sino ad avanzata epoca romano imperiale (III-IV secolo d.C.). Ciò permette di identificare il sito con l'antico abitato di Tamaricios sive Palmas, toponimo chiaramente legato ad una vegetazione lussureggiante ed insolita per i luoghi. L'esistenza di una sorgente nell'area deve aver contribuito non poco a tale aspetto. Nella bella incisione dell'opera in-folio di Jean-Frédéric d'Ostervald è riconoscibile facilmente il promontorio a strapiombo sulla piccola baia, mentre la palma è un richiamo efficace all'antico nome, oltrechè testimonianza dell'immutato aspetto dei luoghi sino agli inizi del XIX secolo. La statio di Tamaricios sive Palmas, lungo la via costiera Capo Peloro - Siracusa viene riportata sia dalla Tabula Peuntigeriana che dall'Itin. Anton. Aug., dove si precisa essere a 20 miglia da Messina e a 15 da Naxos. Com'è frequente in Sicilia la statio coincide con un porto. La baia che si apre al di sotto del Capo fu certamente utilizzata come un approdo. A comprovarlo c'è anche il recupero di un ceppo d'ancora in piombo con astragali sui bracci ora esposto nell'antiquarium di Villa Genovesi.
Relitto di Capo Sant'Alessio A poche centinaia di metri dalla costa, a nord del Capo Sant'Alessio alla profondità rilevante di 70 mt. negli anni '90 fu localizzato un relitto. Da esplorazioni successive il carico sembra costituito esclusivamente da piccole anfore vinarie a fondo piano fabbricate a Naxos di Sicilia e databili in età augustea (I sec. a.C.). Otto esemplari sono stati recuperati, al momento esposti nel Museo Archeologico di Naxos. Certamente appartiene allo stesso relitto una delle anfore esposte nell'antiquarium di Villa Genovese, prelevate nel 1970 dai fondali.
Scifì, scavi archeologici (frazione di Forza d'Agrò) - Le evidenze archeologiche scoperte tra il 1995 ed il 2002 alle porte di Scifì sono le prime ad essere restituite dalla Valle d'Agrò. Resti di strutture murarie in pietre e laterizi legati da malta si estendono lungo le pendici della collina del Cimitero. Forse pertinenti ad un unico edificio dislocato su piani diversi essi sono databili tra la fine del IV e la prima metà del V secolo d.C.. Al di sotto della moderna strada del Cimitero sono in luce 5 ambienti, di cui due conservavano i battuti pavimentali. A est, ad una quota più bassa, ne sono stati scoperti altri, che, aventi il medesimo orientamento, appartengono verosimilmente allo stesso edificio. Qui fu scoperta la tegola con bollo in lettere dell'alfabeto greco - ippicon - che indicava certamente il nome del fabbricante ovvero del proprietario del latifondo. Si tratta di un nome assai diffuso in età romana, riferito sia a personaggi di ordine equestre sia più in generale a gare ippiche. L'ubicazione ed i tracciati dei tratturi che ancora permangono rendono plausibile l'ipotesi che le strutture scoperte appartengano a una villula legata ad un latifondo, un luogo di sosta lungo una strada che, valicando i Peloritani, collegava la costa ionica con quella tirrenica.
Chiesa di San Pietro e Paolo (Casalvecchio) Il monumento certamente più significativo della storia e della civiltà della Valle è la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo col monastero in territorio di Casalvecchio. La sua costruzione sarebbe iniziata intorno al 1116 secondo il diploma del Re Ruggero, e certamente terminata intorno al 1171, come documenta l'epigrafe in greco incisa sullo pseudo-architrave del portale d'ingresso. Successivamente, nel corso del XVI secolo, la chiesa subì varie trasformazioni che, tuttavia, non intaccarono il primitivo impianto. Il monastero fu definitivamente abbandonato nel 1794. Nel 1904 la chiesa, nel frattempo era passata in mano privata, fu acquistata dallo Stato Italiano. La planimetria della chiesa è singolare. La pianta pseudo-basilicale a tre navate mostra una sintesi tra pianta centrale e longitudinale. L'esterno ha l'aspetto fortificato di ecclesia munita, aspetto ancor più accentuato dalle merlature perimetrali e dal verticalismo del corpo absidale, del tutto simile ad una torre. La chiesa è decorata da una fitta serie di lesene e di arcature intrecciate che si svolgono sulle superficie perimetrali, vivacizzate da effetti coloristici ottenuti dall'impiego di materiali diversi. Tale apparato murario trova forti rispondenze nella tradizione bizantina delle maestranze isolane, nonostante due secoli di dominazione araba. L'apporto di quest'ultima cultura è, invece, ben visibile nella sagoma "ad ombrello" della cupola centrale o nella cupoletta emisferica del presbiterio, come nell'uso delle arcate intrecciate nei parametri esterni.